Grande Guerra, ricordi a Merlara

Municipio e monumento ai Caduti di Merlara (Foto Wikipedia)

Ecco il secondo contributo del sig. Federico Gobbi, che ha svolto ricerche su Merlara e la Grande Guerra, al nostro sito internet. Grazie anche a Mauro Gambin della rivista “Con i Piedi Per Terra“.

MERLARA E LA GRANDE GUERRA

All’inizio del 1915 si fanno sentire, anche a Merlara, i primi effetti della guerra, benché l’Italia fosse ancora fuori dal conflitto. Le frontiere sono chiuse, più di 300 emigranti di Merlara restano senza lavoro. Quelli che si trovano già all’estero devono infatti tornare. E non ci sono alloggi per tutti!
Così, l’Amministrazione comunale allestisce un cantiere per i lavori di sistemazione sul Fratta, ma non basta per impiegare una massa di disoccupati che vivono solo del proprio lavoro. Si comincia a sentire la fame. Dal febbraio 1915 gruppi sempre più numerosi di operai si affollano davanti al Municipio chiedendo pane e lavoro. Con un notevole sforzo finanziario si progetta di riattare via Vignola: però il denaro non va necessariamente ai più bisognosi, bensì ai più furbi.
Tanta è la fame che la gente scende in piazza a protestare. Per sedare la protesta viene fatta arrivare una compagnia di soldati . Ma il popolo ha bisogno di pane, non di soldati! Così si decide di approntare delle cucine economiche, per dare un piatto di minestra al giorno alle persone veramente bisognose.
Poi, la guerra vera e propria. Il 24 maggio l’Italia entra nel conflitto e i anche i soldati di Merlara vengono mandati al fronte. Si contano i primi caduti, fra cui TEBALDO FERRO, classe 1892, di cui abbiamo già parlato nel precedente articolo. Ferito in combattimento, viene trasportato all’ospedale militare di Livorno dove si spegne il 20 settembre 1915. Essendo anche il primo caduto di guerra morto in suolo livornese, gli vengono tributati funerali solenni a spese del Comune toscano.

Il 1916 è invece l’anno della Strafexpedition, la cosiddetta spedizione “punitiva” lanciata dagli Austriaci contro gli Italiani. La guerra si inasprisce e parecchi dei nostri concittadini periscono, alcuni in circostanze particolarmente drammatiche.
Il caporal maggiore ALBINO BILLO, classe 1890, lascia la vita il 18 giugno sull’Altopiano di Asiago durante un assalto alla baionetta. È sepolto a Roccolo Astoni, vicino ad Asiago.
Il soldato VITTORIO MARCHIORI perisce nella strage del monte Cimone, a Tonezza. La vetta del monte è un punto strategico, importante per il controllo delle vallate Astico e Posina. Prima viene occupata dagli austriaci, poi ripresa dai nostri. I comandi austriaci, volendo eliminare la minaccia sopra le loro teste, piazzano sotto la cima del monte una gigantesca mina di 14.200 kg di esplosivo. La mattina del 23 settembre viene fatta brillare sconvolgendo il monte e seppellendo tutti gran parte dei componenti del 219° Reggimento Fanteria della Brigata Sele , che presidiava la cima. Solo l’anno successivo vengono recuperati i corpi, poi inumati in un unico vano nel sacello-ossario di Tonezza.
Il bersagliere DE ZUANI EMILIO, classe 1884, a dicembre con la sua compagnia è travolto da una valanga sul monte Cristallo: il corpo viene ritrovato l’anno dopo nel rio Felizon. È sepolto nel sacrario di Pocol, presso Cortina.

All’inizio del 1917 i merlaresi sotto le armi sono oltre 500. Alle famiglie dei soldati lo Stato assegna un sussidio giornaliero di cent. 70 per spose e genitori e di cent. 30 per ogni figlio sotto i 12 anni. Quando è richiamata la classe 1876, viene dispensato chi ha 4 o più figli. A luglio le donne scendono in piazza perché non vogliono più il sussidio statale. È stato loro detto che la firma sulla ricevuta vale come accettazione che la guerra continui e che i loro figli o mariti restino sotto le armi per altri due anni. Ma la protesta dura poco.
A novembre arriva la notizia della disfatta di Caporetto. L’esercito allo sbando, senza ordini né comandanti, si ritira disordinatamente. Gli Austroungarici, se superassero l’ultima resistenza sul Piave, potrebbero dilagare nella pianura veneta e arrivare all’Adige e al Po.
Le conseguenze di Caporetto si avvertono presto anche a Merlara. La casa canonica è affollata di soldati di ogni arma. Alcune migliaia, in fuga da Caporetto, dispersi, senza superiori, armi né bagagli, sono stati raccolti qua e là da un capitano che li ha portati qui in attesa di spedirli ai rispettivi reggimenti. Sono arrivati di notte, stanchi e affamati, dopo aver vagato a lungo per le campagne. Per fortuna qualche buona famiglia ha provveduto a rifornirli di cibo.
Questa situazione si protrae per alcuni giorni finché non viene messo un po’ di ordine e il rancio viene distribuito regolarmente. In canonica sono alloggiati alcuni cappellani militari assieme al capitano, ex studente di teologia e loro compagno di studi. Dopo un po’ di tempo i soldati vengono rimessi in ordine e spediti ai loro reggimenti. Anche il capitano si allontana. In seguito continuano ad arrivare altre compagnie di soldati che si fermano qui due o tre settimane, poi ripartono.
Si ferma a Merlara col suo reggimento di Artiglieria anche il generale Baratieri, che ha stanza nella villa Barbarigo. Un poco alla volta i passaggi di soldati si fanno più rari fino a cessare del tutto.
Nel frattempo, in previsione di una possibile invasione, si comincia a proteggere il paese con reticolati e trincee, le strade sono sbarrate, i ponti sul Fratta allargati e minati. Quello di legno, che collega Merlara a Begosso, che era andato distrutto, viene ricostruito in pochi giorni dall’Autorità militare.
Gli argini del Fratta sono difesi da reticolati e da trincee scavate per postarvi le mitragliatrici. Muoversi di casa è difficile, per uscire dal paese è necessario un lasciapassare, pena il carcere, è vietato il suono delle campane, messe e funzioni si svolgono a orari precisi senza alcun “richiamo”. In lontananza si ode continuamente il rombo del cannone, la notte è illuminata da scie luminose che guizzano nel cielo, spesso solcato da aeroplani.

Ed eccoci nel 1918. La guerra infuria, l’esito è incerto. C’è il diffuso timore di una imminente invasione. Qualche famiglia si procura un alloggio al di là del Po e vi trasporta i propri averi.
A giugno la vittoriosa resistenza sul Piave porta un po’ di sollievo, che si trasforma in gioia incontenibile quando il 4 novembre viene firmato l’armistizio. Finalmente tutto è finito, in chiesa si intona il “Te Deum” di ringraziamento.

Merlara ha offerto alla patria un centinaio dei suoi giovani figli, morti in battaglia oppure di malattia e di st’nti nei campi di prigionia dislocati fra Austria, Germania e Ungheria. Qui, lontani dalle loro case, periscono ragazzi giovanissimi come GIULIANO MURARO, appena diciannovenne, a Zalaergeszec vicino al lago Balaton.
Quelli che riescono a salvarsi e rientrano in Italia subiscono, dalla patria, un’onta ancora più grave. Vengono fermati alle frontiere e portati in campi di raccolta (concentramento) ubicati soprattutto in Emilia Romagna. Sono interrogati riguardo alla loro prigionia perché sospettati di diserzione e messi in quarantena per paura di malattie infettive. E qui la terribile “spagnola” stronca la vita di ben 861 ex prigionieri già indeboliti dalla malnutrizione.

I reduci tornano alle loro case sperando di trovare un premio per i loro sacrifici, come era stato promesso dai comandanti per spronarli a combattere. Grande è la delusione: non trovano né terra né lavoro, bensì un carovita eccessivo, impossibilità di emigrare, miseria e fame. Hanno speso i loro anni migliori per la patria che li ha corrisposti come una matrigna ingrata.

NB. – notizie ricavate dalla “Cronistoria” di mons. RIZZO, arciprete di Merlara dal 1899 al 1942, e da “1918 Prigionieri Italiani in Emilia” di Fabio Montella

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